
Sapeva il valore della fatica. Quella fatica di chi nasce “con niente” e impara
nella periferia di una Milano dura e orgogliosa che ti insegna dignità e lavoro.
Ernesto Pellegrini, scomparso il 31 Maggio 2025 a 84 anni, era proprio questo: un vero
self made
man. E il destino ha scelto un giorno particolare per chiudere il suo capitolo, proprio il giorno della finale di
Champions League della sua Inter.
“Sua” prima ancora di diventarne presidente. Perché i colori
nerazzurri avevano acceso il futuro di quel ragazzo figlio di ortolani, diplomato in ragioneria, un
“ragiunatt” (come si dice a Milano con un misto di rispetto e ammirazione) che sapeva far di conto, trattando i soldi come un bene prezioso, non uno sfoggio. Ai milanesi piaceva
così, e Pellegrini ha mantenuto questa essenza anche dopo aver conquistato il successo economico, impegnandosi nel sociale con discrezione, senza clamore. Aveva chiamato il suo ristorante
“Ruben”, in ricordo di un amico morto assiderato in una baracca: un luogo dove si mangiava con poco, ma con cuore.
Per tutti, però, è stato soprattutto il
presidente dell’Inter. Dal 1984 al 1995, tra Ivanoe Fraizzoli e Massimo Moratti, ha rilevato il club con dieci miliardi di lire,
guidato da una passione autentica. L’aneddoto dell’avvocato Agnelli che commentò “il mio cuoco ha comprato l’Inter” (perché la ditta Pellegrini forniva le mense
della Juventus) è rimasto nella memoria. Un’amarezza dietro la battuta forse per invidia: Pellegrini dimostrava che si può arrivare lontano senza un pedigree di famiglia.
La “Grande Inter” era un ricordo sbiadito, il presente incerto. Ma lui mise entusiasmo da tifoso vero, rispetto per chi era stato prima di lui e una buona dose di concretezza. Trovò
il suo campione a Monaco di Baviera:
Karl-Heinz Rummenigge. Kalle non vinse lo scudetto, ma conquistò i cuori nerazzurri con emozioni che vanno oltre i trofei, come quel gol in
rovesciata contro i Rangers di Glasgow, anche se annullato.
Poi arrivò il periodo d’oro con
Giovanni Trapattoni in panchina e
Lothar Matthäus in campo, un vero trascinatore capace di far innamorare anche la moglie del campione
della città di Milano. Con loro il Bayern cedette anche
Andreas Brehme, un altro “Pellegrini in campo”: umile, sottovalutato, ma diventato un fuoriclasse. Lo scudetto 1988-89
fu un trionfo memorabile, un titolo “da Inter”, conquistato con gioco brillante e un San Siro in delirio.
Ernesto Pellegrini sorrideva dalla tribuna con la sua sigaretta e quella erre moscia che lo rendevano ancora più signore tra gli uomini d’industria. Oggi, mentre l’Inter
scenderà in campo per la finale di Champions contro il Psg, giocherà con il lutto al braccio e gli occhi lucidi, pensando al suo presidente. Sul sito ufficiale del club si legge che in
undici anni alla guida, Pellegrini ha guidato la società con “saggezza, onore e determinazione, lasciando un’impronta indelebile”. Parole che lui avrebbe portato con
orgoglio.
Un cuore grande come San Siro gremito, tutto colorato di nerazzurro.
Ernesto Pellegrini resterà per sempre così, nel ricordo di chi ama l’Inter e il valore del lavoro.
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